Un nuovo studio congiunto di Dublin City University (DCU) e Ulster University Economic Policy Centre, finanziato in parte da The Ireland Funds, ha fornito una fotografia dettagliata delle implicazioni economiche di una futura unificazione dell’Irlanda. I numeri sono chiari: circa tre miliardi di euro nel primo anno sarebbero necessari per colmare il deficit ereditato dall’Irlanda del Nord e avviare l’armonizzazione di salari e pensioni. Ulteriori 152 milioni all’anno, distribuiti su quindici anni, servirebbero per aumentare gradualmente del 48% i salari dei pubblici dipendenti del Nord, portandoli allo standard della Repubblica, mentre altri 115 milioni all’anno, spalmati su quarant’anni, coprirebbero l’adeguamento delle pensioni pubbliche.
Secondo lo studio, il deficit pubblico generato dall’unificazione si esaurirebbe in un arco di tempo compreso tra cinque e nove anni, un orizzonte compatibile, o addirittura accelerabile, se l’economia nordirlandese crescesse in modo sostenuto. Nel migliore dei casi, entro già cinque anni si potrebbe arrivare al pareggio. Questi dati economici rappresentano un fiato di speranza per chi sostiene la riunificazione e politicamente potrebbero ridimensionare le obiezioni finanziarie sollevate nei dibattiti pubblici, alimentando la spinta verso un border poll nei prossimi anni. Un’analisi chiara e scientificamente basata rafforza il fronte unitarista, dando nuove argomentazioni a Sinn Féin, SDLP e alle forze moderate del Sud e del Nord interessate a un cambio di rotta.
Questa lettura è confermata anche da altre ricerche emerse recentemente. In un comunicato, Sinn Féin ha evidenziato come “non esistano barriere economiche insormontabili” alla riunificazione, definendo lo scenario delineato dallo studio “gestibile e realizzabile”. Pearse Doherty, portavoce economico del partito, ha affermato che “il mito di un costo paralizzante per l’unificazione è ormai smentito”, sottolineando come un’Irlanda unita potrebbe offrire nuove opportunità economiche per tutti.
Se passiamo al paragone con la Germania post-1990, uno degli esperimenti più intensi di reintegrazione economica nella storia europea, notiamo che all’unificazione economica del 2 luglio 1990 fu messo in piedi il meccanismo Treuhand, per privatizzare le industrie della Germania Est e integrarle nel contesto capitalistico della Germania Ovest. Furono investiti tra uno e due trilioni di euro in decenni, per infrastrutture, imprese e politiche sociali nelle regioni orientali. A partire dal 1996, il reddito pro capite nella ex DDR era passato da meno del 50% a circa il 67% rispetto alla Germania Ovest, ma la convergenza si fermò, attestandosi al 70–75% ancora oggi. Le disparità rimangono evidenti su salari, produttività del lavoro e disoccupazione, anche se infrastrutture e servizi sono migliorati notevolmente grazie all’enorme piano d’investimenti. La Germania ci insegna che l’integrazione è possibile e può migliorare significativamente le condizioni materiali, ma che le differenze economiche regionali non spariscono da un giorno all’altro e che servono decenni per ottenere una convergenza stabile.
In passato, altre analisi hanno stimato costi molto più alti. Nel 2021, un gruppo di economisti della London School of Economics, su commissione di un think tank unionista, stimò il costo annuo per la Repubblica tra i dieci e i dodici miliardi di euro, praticamente triplo rispetto alle nuove previsioni. Quella stima si basava sull’ipotesi che il Nord avrebbe mantenuto lo stesso livello di spesa pubblica senza alcun miglioramento economico, nessuna crescita significativa della produttività e una gestione passiva delle riforme fiscali. Il rapporto fu criticato per aver assunto una “stasi economica” nel Nord anche dopo l’unificazione, trascurando effetti dinamici positivi come investimenti, turismo, maggiore integrazione del mercato del lavoro e riduzione dei costi della duplicazione amministrativa.
Uno studio dell’Università di Cork del 2017, a firma del prof. John Doyle, stimò i trasferimenti netti dal governo britannico all’Irlanda del Nord in circa 9,2 miliardi di sterline all’anno nel 2015. Tuttavia, evidenziò che una parte significativa di quella spesa riguardava pensioni e interessi sul debito, che non sarebbero necessariamente passati alla Repubblica. Dopo aver depurato le voci, la cifra reale a carico della Repubblica scendeva a circa 2,5–3 miliardi di euro all’anno, in linea con le cifre dello studio DCU-Ulster. Anche un’analisi del Centre for Cross Border Studies del 2019 stimò un costo iniziale di circa 4–5 miliardi di euro, ma evidenziò anche un potenziale aumento del PIL complessivo irlandese del 2–3% nei primi dieci anni grazie a una maggiore efficienza economica, riduzione delle barriere doganali e maggiore attrattività per investimenti esteri.
Infine, una stima interna circolata a Bruxelles e attribuita a KPMG nel 2020 indicava un “worst case scenario” con costi annuali fino a quindici miliardi, ma lo stesso documento precisava che si trattava di un’ipotesi estremamente prudenziale, in assenza di riforme e con bassa crescita. Molti osservatori notarono che quel documento serviva più a “raffreddare” le aspettative unioniste che a rappresentare realisticamente le prospettive. Le differenze tra le stime derivano principalmente da come si considera la crescita economica futura, da come vengono trattate pensioni e difesa, dalla velocità di armonizzazione dei servizi pubblici e dal livello di investimenti strategici previsto per sostenere la convergenza.
Il nuovo studio dimostra quindi che l’unificazione irlandese è una sfida gestibile, non un onere insostenibile. Il nuovo studio sfida apertamente le stime più pessimistiche del passato, ed e’ una “doccia fredda” per gli argomenti unionisti che puntano a spaventare i cittadini con cifre gonfiate. Si tratta di un investimento serio, ma limitato nel tempo e potenzialmente autosufficiente in tempi relativamente brevi. L’esperienza tedesca insegna che richiede visione, pazienza e risorse continue, ma può portare frutti significativi a lungo termine.